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RIFORMA DELLA GIUSTIZIA TRIBUTARIA

La riforma della giustizia tributaria tra urgenza del diritto e responsabilità politica

di Giuseppe Falanga

Il 9 agosto 2022 la Camera ha approvato – con 288 voti favorevoli – la riforma della giustizia tributaria; il 4 agosto il Senato aveva approvato – con 166 voti favorevoli – l’ambizioso disegno di riorganizzazione del sistema giudiziario in materia fiscale, siglando una novità giunta nel mezzo di un’estate pre-elettorale quale esito agrodolce – diremmo insperato – di circa sei mesi di lavoro svolto in sede congiunta dalle Commissioni Finanze e Giustizia di Palazzo Madama.
Le sessioni di lavoro – dopo il deflagrare improvviso della crisi di maggioranza – ai fini della verifica del ddl governativo n. 2636 recante “Disposizioni in materia di giustizia e di processo tributari”, approvato il 17 maggio dal Consiglio dei Ministri, erano riprese in Corso Rinascimento martedì 26 luglio. Proprio l’innesco della crisi politica, circa dieci giorni prima, aveva accresciuto tanto la consapevolezza di dover fare presto quanto l’ansia di non farcela. Tra primavera ed estate, il Senato era già stato impegnato in un’articolata discussione sviluppatasi fino allo scioglimento delle Camere da parte del Capo dello Stato.
Il crollo della maggioranza ha evidentemente compromesso un iter parlamentare vitale e si rischiava di non concluderlo, sebbene fossero giunte rassicurazioni dal senatore Luciano D’Alfonso, che presiede la Sesta Commissione Finanze e Tesoro del Senato, circa il sereno prosieguo dei lavori. La promessa è stata mantenuta. Almeno fino ad oggi. Il Governo e le forze politiche hanno di fatto blindato un percorso che dovrebbe giungere al suo traguardo definitivo entro settembre. Vedremo.
La riforma era stata oltretutto fatta rientrare tra gli ‘affari correnti’ segnalati come irrinunciabili dal Governo dimissionario, per cui il disbrigo doveva obtorto collo rientrare nei termini stabiliti. Se è vero che il Governo uscente sta tendando di portare a casa i decreti attuativi delle riforme della giustizia civile e penale, un primo passo sembra sia stato fatto, lasciando sperare di avere in porto anche la riforma della giustizia tributaria, nonostante il suo recente approdo in un Parlamento turbolento. Il punto, infatti, è comprendere quale potenziale generativo sia autenticamente espresso dalle forze politiche attuali nel congedare il disegno di riforma, dato che le circostanze attuali impongono un impegno cooperativo e solidaristico – la chiamavano “unità nazionale” – che sia orientato alle priorità e che induca ad intervenire secondo necessità.


Desta non pochi interrogativi il fatto che si cerchi di fondare un’imponente opera di cambiamento negli stessi giorni in cui l’assetto di equilibrio tra le forze politiche si è riscoperto senza fondamento, per di più a motivo di un difetto di fiducia generato dagli stessi gruppi parlamentari.
La complessità dei temi tecnici propri della fiscalità e l’impatto della giustizia tributaria sulla vita sociale avrebbero infatti richiesto tutt’altra concentrazione di energie e di attenzioni da parte della classe politica rispetto all’epidermica e inconcludente constatazione delle sole criticità presenti.
Parliamo di un disegno di legge di iniziativa governativa, concepito in modo non dissimile da altri provvedimenti con cui il Governo Draghi si era proposto di traguardare uno dei numerosi obiettivi del PNRR. Ed è subito apparsa questa la leva di molte perplessità, dal momento che la riforma persegue una finalità migliorativa di ampio orizzonte, includente un’area importante del sistema tributario che occorreva puntellare con micro-azioni emendative di varia natura, comunque incidenti, quali il garantire un più agile accesso dei cittadini alle fonti giurisprudenziali con ausilio delle piattaforme tecnologiche; l’introdurre il rinvio pregiudiziale da parte delle Commissioni tributarie per sciogliere dubbi interpretativi e, dunque, evitare che si formino decisioni in contrasto con gli orientamenti della Corte di Cassazione; non meno importante, infine, il potenziare l’organico di personale anche mediante adeguati incentivi economici.
Il legislatore era stato chiamato a rivedere la normativa processuale di primo e secondo grado – vedi il d.lgs. n. 546/1992 – e a potenziare innanzitutto la cosiddetta ‘funzione nomofilattica’ della Corte di Cassazione, cioè il ruolo di chi tra i togati, pronunciandosi per ultimo, deve poter garantire l’esatta osservanza, ossia l’uniforme interpretazione della legge, insieme all’unità del diritto oggettivo nazionale in materia tributaria.
Sono, non a caso, la lentezza dei processi ed il volume dell’arretrato dinanzi alla Corte di Cassazione ad aver allertato per primi i ‘novatores’ e, tra questi, quelli con più spiccata vocazione europeista. È stato a più riprese ricordato che alla fine del 2020 i ricorsi dinnanzi alla Suprema Corte superavano le 50.000 unità. Un’evidenza inaccettabile a cui bisognava mettere mano con approccio organico e strutturale: qualcosa nell’architettura giudiziaria italiana non funziona se le risoluzioni definitive della Corte di Cassazione mandano in soffitta il ‘decisum’ in appello delle commissioni tributarie locali.


La frénésie pre-elettorale dei partiti politici scatenatasi nelle ultime settimane poteva indurre a credere che, da destra a sinistra, nessuno fosse pervenuto alla stessa drammatica conclusione di dover fare presto, tanto da presumere di vedere naufragare, in pochi giorni, una speranza a lungo nutrita o, comunque, un’ambizione vantaggiosa per tutti ma apprezzata da pochi.
Eppure, la Commissione di studio cosiddetta ‘della Cananea’, dal nome del presidente Prof. Giacinto della Cananea, voluta dai Ministri della Giustizia Cartabia e dell’Economia Franco perché proponesse al Governo, tramite mirata consultazione interministeriale, un disegno di riforma della giustizia tributaria, aveva presentato la relazione finale già il 30 giugno 2021. A distanza di circa un anno, lo scorso 1 giugno, il Governo ha presentato in Senato il disegno di legge.
Si tratta – diremmo con legeresse pubblicistica, a margine di più ponderate notulae accademiche – di una riforma che, almeno nelle premesse, vorrebbe essere ambiziosa e tale appare sia per l’urgenza dell’iniziativa sia per la gravità e la varietà dei punti su cui agisce, ma anche un po’ per l’aspettativa nutrita nell’opinione pubblica per circa trent’anni.
Il vettore legislativo della riforma aveva da subito impegnato il Governo fino all’estremo vaglio dei decisori politici, rimanendo da tempo sotto i riflettori della cronaca.
Subito dopo il congedo di Draghi del 21 luglio sc0rs0, l’amarezza dell’attesa s’era comprensibilmente intensificata; nei giorni di débâcle parlamentare v’era ragione di supporre che, stante l’improvvisa crisi di governo e a fronte della grande apprensione che n’è derivata, nonostante la ripresa dei lavori nelle Commissioni congiunte e le labili rassicurazioni raccolte ai loro margini, l’attesa della riforma avrebbe continuato ad alimentarsi, fino a dover vedere più lontano il traguardo e più difficile la strada per raggiungerlo. La stessa tabella di marcia del Governo tradiva un’ansia da prestazione, del tutto comprensibile vista la posta in gioco, per via di una “manutenzione ordinamentale” del sistema tributario mancata per anni e la cui necessità s’avvertiva pressante.
Si consideri che ai fini dell’attuazione definitiva dell’iter di riforma, il PNRR fissava il termine perentorio entro il quarto trimestre del 2022, dunque entro la fine di dicembre. Il Ministro della Giustizia Marta Cartabia s’era invero detta da subito fiduciosa che la riforma potesse essere varata entro l’anno; il termine poi s’era fatto ‘liquido’, di certo esposto al rischio di scivolare dal rigo di un’agenda che è parsa non dettare più il ritmo di marcia del cambiamento.
Così non è stato: le Commissioni al Senato hanno condotto attività di audizione su tre livelli, interpellando le conoscenze accademiche, misurandosi con le competenze professionali, dando voce ai portatori d’interesse.
Aveva intanto suscitato qualche perplessità il fatto che lo ‘strumento’ legislativo prescelto fosse stato un ddl e non, ad esempio, un più impegnativo d. lgs. o finanche un d.l. La questione non è evidentemente solo di carattere procedimentale o di raffinata dottrina giuridica, giacché attiene alla vita economica reale e la connessione organica tra le parti in gioco è apparsa tanto più evidente – diremmo angosciante – se vista dal fondo del baratro politico in cui in poche ore l’Italia s’è ritrovata. La cogenza dei suoi risvolti pratici apparirebbe, infatti, con drammatica immediatezza se solo si misurasse il grado di fiducia delle imprese – soprattutto degli investitori esteri – nei confronti della giustizia fiscale italiana: tale è oggi l’impatto negativo delle dinamiche tributarie sulle scelte strategiche delle aziende che non si può rinviare una sfida tanto importante. Eppure, la politica dei partiti, liberando lo sfiatatoio dei vacui protagonismi, aveva immotivatamente scelto la via del rinvio, anziché approcciare la leva del miglioramento entro una visione integrata e sistemica degli obiettivi e dei fattori che di per sé hanno complicato il disegno di riforma.
Visti i lavori alacremente avviati in Parlamento, c’era qualche ragione, seppure timida, per ritenere che tale sfida, già nell’affrontarla e prima ancora di vincerla, avrebbe comportato un’assunzione supplementare di responsabilità dinnanzi alle criticità su cui l’Italia era chiamata ad intervenire. Non a caso, il Governo Draghi ha fatto di tutto per scongiurare che proprio il PNRR si riducesse a un sentiero interrotto e diventasse paradossalmente l’ennesima tappa della saga italiana verso le riforme mancate o – fa lo stesso – incompiute. Nel mezzo della crisi, possiamo dire che il PNRR è stato l’ultimo tentativo sperimentato nel senso del cambiamento o, anche, il nobile pretesto per non cedere all’ennesima tentazione di un rinvio fatale. E l’ambizione è ancora in piedi. Oltretutto è a partire dall’intransigente acronimo che l’imperativo riformatore, declinato su vari fronti – dalla transizione ecologica all’istruzione, dall’industria all’infrastruttura digitale – ci aveva sospinti innanzi al soglio dell’Unione Europea, guardando a traguardi irrinunciabili di miglioramento dei servizi pubblici e della produzione economica. E, ancora, non a caso il Governo Draghi – nel rivendicare fino all’ultimo giorno il conseguimento risoluto dei primi obiettivi pianificati – ha voluto dare un segnale politico incisivo anche agli investitori internazionali, quale ‘refrain’ assertivo che con la sopraggiunta crisi di maggioranza sembra che rilevi ancora di più nel marcare quasi una posizione distinta, audace se non ardita, nel duellare con gli antichi retaggi che hanno aggravato – e tuttora complicano –la difficile sfida di riforma del contenzioso tributario.
Gli esperti sanno che la storia dell’Italia unita è costellata di tentativi di riforma della giustizia tributaria. È, questa, un’asserzione forse banale che potrebbe essere accolta con favore da storici e politici, giuristi ed amministratori se si considerassero quantomeno la varietà e la complessità degli aspetti specifici che tutt’oggi mira ad innovare, ad iniziare dalla ricerca di un esercizio giurisprudenziale maggiormente qualificato, passando per la specializzazione dei giudici ed il contenimento della litigiosità fiscale.
Se per tentativi di riforma s’intendono tuttavia le modifiche più o meno integrate del sistema fiscale, dettate da ineludibili evidenze storiche, ogni volta messe a punto per adeguare la raccolta del gettito tributario al contesto economico e sociale del Paese, sarebbe non senza fondamento affermare che la storia economica e sociale italiana narra di numerose vicende amministrative atte a riformare il fisco nell’evoluzione ordinaria delle finanze statali o quantomeno volte a razionalizzarne l’assetto.
Si pensi soltanto ai primi gemiti della Repubblica, allorquando si avvertì l’esigenza di un intervento organico, sicché nella Costituzione furono cristallizzati i principi fondamentali dell’ordinamento tributario, dalla riserva di legge alla capacità contributiva. Si pensi alla legge di perequazione tributaria e ai tentativi di Vanoni del 1951 o ai lavori della Commissione Cosciani del 1962.


La nuova riforma approvata in via definitiva dalla Camera il 9 agosto impone una revisione delle procedure ordinamentali che, riducendo gli sterili formalismi di rito, investe le modalità concrete del somministrare la giustizia in ambito tributario: chi è chiamato a giudicare deve poter disporre delle competenze e dei poteri autonomi per verificare se le dovute misure siano state idoneamente adottate dall’Amministrazione finanziaria nelle fattispecie trattate. Se, infatti, lo Stato non può non imporre i tributi – è una sua esigenza fisiologica riconosciuta dalla Costituzione – occorre ispessire i margini di controllo sui nodi che fondano quella pretesa, ossia monitorare la relazione essenziale tra il fabbisogno statale ed il reddito pro-capite, fosse solo per il fatto che da questa grandezza deriva la ripartizione progressiva dei tributi. Se quest’esigenza si palesa ‘a monte’ delle dinamiche tributarie, laddove la politica decide il modello di fiscalità da implementare, viene facile dedurre quale sia la sua pregnanza ‘a valle’ dei meccanismi giudiziari che verificano la giustezza di quei controlli.
Le Commissioni Finanze e Giustizia del Senato, vagliando le linee evolutive della questione, avevano perciò da subito riconosciuto la centralità del tema, a partire dall’indipendenza dei giudici tributari, che avrebbe però dovuto palesarsi come condizione indispensabile anche nei confronti del Ministero dell’Economia e delle Finanze, che gestisce ancora il reclutamento dei magistrati, il loro status giuridico ed economico, nonché l’organizzazione delle loro segreterie ausiliarie.
Nel merito, la riforma prevede – e resta tra le novità di maggior impatto critico tra gli addetti ai lavori – la professionalizzazione dei magistrati tributari, attraverso il reclutamento per concorso di un giudice tributario. Con il ddl n. 2636 si è mirato di fatto a migliorare la qualità delle sentenze prevedendo un magistrato formato ad hoc che operi a tempo pieno. Parliamo di una figura professionale che agirà in luogo delle antiquate Commissioni – che diverranno ‘Corti di giustizia tributarie’ – con potere autonomo e indipendente, affiancando in via transitoria i giudici onorari part time, il che dovrebbe rassicurare il cittadino più intransigente e al contempo forse preoccupare le altre istituzioni a motivo di un’occulta deriva verticistica – ma è proprio così? – dei poteri affidati.
La grande novità della professionalizzazione dei magistrati – vedi il d.lgs. 545/1992 – sarà per l’appunto garantita da un concorso – la chiamata all’appello è per 567 magistrati tributari – che sarà articolato in tre prove scritte e in una prova orale, aperto tanto ai laureati in materie giuridiche quanto ai laureati in materie economiche. Il ‘turn over’ nelle Commissioni tributarie andrebbe a mano a mano realizzandosi con la progressiva sostituzione dei giudici professionali a quelli onorari, andando oltre l’attuale limite pensionistico fissato al compimento dei 70 anni, spingendosi fino a 74 a seconda dei tempi necessari all’espletamento delle procedure concorsuali.
I tempi delle frizioni tra l’erario ed i cittadini andrebbero comunque ad abbreviarsi: il traguardo siglato M1C1-35 nel PNRR si propone di riformare il quadro giuridico allo scopo di rendere più efficace l’applicazione della legislazione tributaria e ridurre dunque la quantità di ricorsi in Cassazione.
Il disegno di legge governativo approvato dalle Camere ha di fatto modificato la disciplina del processo tributario: si prevede che presso la Corte di Cassazione sia istituita una sezione civile incaricata di trattare in via esclusiva le controversie tributarie. Sarà il Primo Presidente ad adottare i provvedimenti con cui stabilizzare gli orientamenti di legittimità ed agevolare la definizione dei procedimenti pendenti.
Sono state inoltre introdotte la prova testimoniale – cassando il divieto finora previsto – nel giudizio di merito di primo e secondo grado, e l’istituto della conciliazione su iniziativa del giudice, oltre a prevedere una disciplina specifica per l’appello di talune sentenze del giudice monocratico, che diventano appellabili e si potrà perciò ricorrere per i contenziosi fino a 3mila euro.
La testimonianza in forma scritta introdotta può essere intanto ammessa dal giudice come prova da opporre ai verbali o agli atti del pubblico ufficiale, quale garanzia del confronto dialogico e paritario tra l’Amministrazione e il contribuente ricorrente. L’onere della prova passa però dal contribuente all’Amministrazione finanziaria ed i funzionari inadempienti che, senza motivazione, rigettano la mediazione del contribuente se ne assumono la responsabilità.
È, a ben guardare, la litigiosità fiscale la vera manticora da tenere in gabbia, evitando che con la sua coda lanci saette velenose che immobilizzino i meccanismi giurisdizionali. Anzi, sarebbe meglio se nelle aule giudiziarie non si arrivasse affatto, perché – si sa – il contenzioso ha un costo, ha una durata e suo malgrado provoca effetti deleteri sulla società civile e – si diceva – sui mercati. Se i cittadini che si presumono offesi ricorrono di meno, minore sarà il contenzioso con le sue lungaggini. Per questo motivo, la riforma introduce la mediazione tributaria su iniziativa del giudice per controversie di importo fino a 50.000 euro, mentre sarà il giudice monocratico, in primo grado, a pronunciarsi sulle controversie fino a 3.000 euro.
La stampa degli ultimi giorni ha poi dato risalto – e non a torto – alla novità della “pace fiscale”, assicurata in una modalità giudicata sostenibile che di fatto contempla lo stralcio di oltre 50mila liti pendenti in Cassazione. L’Amministrazione ha, in altre parole, riformulato la modalità di recupero dei crediti: quanti non abbiano debiti con l’Agenzia delle Entrate superiori a 100.000 euro possono accordarsi per pagare soltanto il 5% o il 20% dell’importo dovuto per controversie in atto, in modo da estinguerle in minor tempo.
Sono state tra l’altro rafforzate le prerogative del CPGR, il Consiglio di Presidenza della Giustizia tributaria, altro punto nodale del disegno di legge, allo scopo di marcare l’indipendenza dell’organo, proprio perché possa meglio sovrintendere alla magistratura fiscale. Presso il Consiglio di Presidenza della giustizia tributaria sono istituiti un Ufficio ispettivo attivo ed un Ufficio del Massimario.
Al CPGR la riforma affida – ed è forse il ‘vulnus’ dell’intera vicenda affrontato dalle Commissioni parlamentari nelle ultime settimane – una parte importante nella fase di reclutamento dei magistrati tributari, in special modo per quanto attiene ai sei mesi di tirocinio in ingresso: sarà il Consiglio di Presidenza ad individuare i magistrati tributari affidatari, insieme alle modalità di affidamento e ai criteri per conseguire il giudizio di idoneità.
Altrettanta responsabilità è riconosciuta a CPGR sul fronte della formazione continua dei magistrati: all’importante organo di Presidenza spetta definire, con proprio regolamento, i criteri e le modalità per garantire la formazione periodica, tramite frequenza di corsi teorico-pratici.
Il testo della riforma tributaria congedato dalle Camere reca altre importanti novità tecniche che restano sotto la lente d’ingrandimento dei giuristi e degli analisti politici.


Il dibattito sull’adeguatezza delle misure adottate nel disegno di riforma approvato dalle Camere è in corso da mesi e, stante la delicatezza dei temi, insieme alla complessità delle correlazioni e al loro impatto sulla vita socio-economica, si ha motivo di ritenere che la discussione tra gli esperti resti accesa ancora per molto tempo. Non è ciò che preoccupa, perché la verifica progressiva delle posizioni acquisite è prassi metodologica cara alla democrazia; ciò che preoccupa è il fatto che non v‘è chi si curi di saggiare la qualità politica delle ipotesi cristallizzate nel progetto di riforma.
Le alleanze ed i veti tra i partiti politici si susseguono appuntando e cassando, con disinvoltura balneare, geometrie parlamentari finora inimmaginate, tant’è che l’orizzonte elettorale del 25 settembre sembra aver unito, dissipandoli, tutti gli altri punti di scadenza che, tra priorità e traguardi, arricchivano l’agenda italiana e la ponevano in sintonia con quella europea.
Nell’impero della décadence il nullismo della dialettica politica assurge agli onori della cronaca per autenticarsi come vacuità manifesta, quale cifra eloquente della sostanziale incapacità di ragionare per programmi ed azioni, misure ed obiettivi, senza che nemmeno si tenti di configurare – tra strappi e mediazioni – una visione comune di ‘Paese’.
A destare preoccupazione ora non è tanto il percorso di approvazione della riforma della giustizia tributaria quanto l’assenza di uno spazio politico condiviso in cui il dibattimento pubblico – di certo non condotto con agilità alla portata dei cittadini – possa elaborare analisi rigorose ed attendibili sulla qualità dei processi di produzione normativa. D’altro canto, la partecipazione dei rappresentanti parlamentari all’attività legislativa dovrebbe essere garantita dall’esercizio di una responsabilità assunta nell’urgenza del diritto e non nella ristrettezza emergenziale e, ad ogni modo, a prescindere dall’agibilità dei percorsi elettorali che vanno allestendosi in questi giorni.
Anche il varo di una riforma ‘difficile’ qual è la riforma della giustizia tributaria, fosse solo per la tecnicità esclusiva della complicata materia, reca in sé argomenti politici e rinvia ad un retroterra di valori e principi tanto ampio quanto profondo che i partiti politici, seppure nel flebile crepuscolo di legislatura, non possono ignorare proprio perché ‘partiti’, proprio perché ‘politici’. I valori che definiscono la meta ed i principi che costellano la strada per raggiungerla disegnano entrambi la prospettiva entro cui va snebbiandosi la vision a sostegno di una riforma che investe tutt’intera la vita sociale ed economica. Non v’è, in tal senso, iniziativa legislativa che possa dirsi efficace, men che meno in chiave riformatrice, se non sarà incentrata sulla relazione essenziale tra l’urgenza del diritto tributario e la responsabilità della politica democratica.
La politica che non anima un Paese bisognoso di riforme rischia di approvare riforme prive di anima politica.

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